“Esiste una correlazione tra repressione sessuale e aggressività”?
In questo articolo vedremo come diversi studi hanno dimostrato una correlazione tra repressione sessuale e maggiori livelli di aggressività.
Per repressione sessuale possiamo intendere l’impossibilità a riconoscere, esprimere e a vivere la propria natura sessuale, i propri impulsi e desideri, in modo soddisfacente.
Inizierei con l’assunto che il sesso è uno dei bisogni fisiologici essenziali e primari; noi tutti esseri umani siamo esseri erotici.
Lo psicologo statunitense Abraham Maslow, noto per la sua teoria motivazionale basata sul soddisfacimento di bisogni, nel suo grafico piramidale considera il sesso come un bisogno fisiologico basilare, allo stesso modo del respiro, dell’alimentazione, del sonno e dell’omeostasi. Per l’autore il sesso è importante quanto respirare e se ci pensiamo bene, noi non esisteremmo se non fosse per il sesso.
Alla teoria motivazionale di Maslow ci torniamo più avanti.
Secondo Freud (I tre saggi sulla teoria sessuale, 1905) le pulsioni sessuali si manifestano nell’essere umano sin dalla prima infanzia. Anche per Freud le pulsioni sessuali, come la sete e la fame, rappresentano una necessità vitale per l’organismo. Nell’infanzia le pulsioni sono definite parziali poiché correlate a determinate parti del corpo e, a seconda dei diversi stadi di sviluppo (fase orale, fase anale e fase fallica), il loro appagamento è dato dalla stimolazione delle stesse parti (per esempio la suzione nella fase orale). Verso i cinque anni il bambino entrerebbe in un periodo di latenza per poi raggiungere nell’adolescenza una maturazione psico-fisica che porta a integrare le pulsioni in un’attività sessuale genitale completa.
Anche per Kernberg la sessualità è presente nei bambini sin dai primi giorni di vita; le cure e le attenzioni da parte della figura di attaccamento, anche sul piano fisico come i baci, le carezze e la vicinanza, permettono al bambino di sperimentare delle sensazioni piacevoli che ne modellano le prime esperienze erotiche.
La scienza supporta questi costrutti teorici dimostrando come i nostri primi approcci alla sessualità si manifestano sin dalla nascita. Nel corpo della madre, durante il travaglio, aumentano i livelli di ossitocina e di prolattina che sono le stesse sostanze che, come vedremo in seguito, si liberano durante l’orgasmo e che si correlano al piacere fisico e all’amore.
Assodato il fatto che il sesso è un bisogno fisiologico fondamentale su cui si basa la nostra esistenza, vediamo quali sono i benefici di una vita sessuale appagante.
Da un punto di vista neurobiologico diversi studi dimostrano come l’attività sessuale favorisca la produzione nel nostro cervello di sostanze quali l’ossitocina, la dopamina e le endorfine.
L’ossitocina è un ormone correlato ai comportamenti pro-sociali, come l’empatia, l’altruismo e la generosità; inoltre è associato ad una maggiore fiducia nei confronti degli altri.
La dopamina è un neurotrasmettitore che riveste un ruolo chiave nei meccanismi di ricompensa e piacere; inoltre è correlata a funzioni cognitive quali la memoria e l’attenzione, nonché al meccanismo fisiologico del sonno e regola l’umore.
Durante l’attività sessuale l’ossitocina stimola la liberazione della dopamina che amplifica le sensazioni piacevoli dell’orgasmo. Il raggiungimento dell’orgasmo comporta un rilascio di endorfine che aumentano una sensazione di benessere e di piacere.
La scienza dimostra che l’attività sessuale può essere considerata alla pari di un buon antidepressivo.
Queste informazioni ci permettono di comprendere come l’attività sessuale, sia che si tratti di autoerotismo sia nell’ambito relazionale, comporti tutta una serie di benefici per l’individuo, non solo
sul piano soggettivo ma anche interpersonale. Una persona sessualmente appagata tende ad essere empatica, generosa e fiduciosa nei confronti del prossimo al contrario di quello che ci possiamo aspettare da una persona sessualmente repressa volta, invece, a soffocare una pulsione vitale che, come abbiamo capito, è strettamente correlata al nostro benessere psico-fisico. Non dimentichiamo che i sinonimi di repressione sono inibizione, soffocamento e spegnimento.
Diversi studi hanno dimostrato come l’eccessiva repressione dell’istinto sessuale tipica di alcune società sia correlata a livelli maggiori di aggressività.
È interessante citare la ricerca interculturale condotta dallo psicologo J. Prescott e pubblicata su “The Bulletin of Atomic Scientists” (1975) dalla quale emerge come nelle culture che proibivano il sesso prematrimoniale erano registrati maggiori tassi di criminalità e di violenza. Tale ricerca è riuscita a mettere bene in evidenza la stretta correlazione tra repressione sessuale e aggressività, insensibilità, comportamenti criminali, nonché una maggiore propensione a torturare i nemici.
L’etologia ci offre delle interessanti conferme in questa direzione grazie agli studi condotti sui bonobo, le scimmie più vicine alla nostra specie che condividono più del 98% del nostro patrimonio genetico. Il bonobo è più simile all’uomo di quanto lo sia la volpe al cane giusto per dare un’idea.
I ricercatori hanno riscontrato una evidente correlazione tra i livelli alti di eccitazione sessuale e la bassa aggressività nelle comunità dei bonobo, ragioni per cui sono state definite scimmie hippie: i bonobo preferiscono fare l’amore rispetto alla guerra.
Una peculiarità dei bonobo, a differenza di altri primati, è che la loro vita è organizzata in società matriarcali. Il sesso, vissuto nella sua dimensione ludica e non solo riproduttiva, ha un ruolo chiave nella vita sociale dei bonobo. L’attività sessuale, anche tra soggetti dello stesso sesso, assume diverse funzioni come provare piacere, evitare i conflitti, rilassarsi e rafforzare le relazioni.
Per citare il testo di una canzone, sotto diversi aspetti sembrerebbe proprio che il bonobo sia l’evoluzione dell’uomo.
Ora ritorniamo alla teoria dei bisogni di Maslow che è considerata uno dei principali modelli di riferimento sulla motivazione delle persone. Secondo l’autore, quando i bisogni non vengono soddisfatti provocano uno stato di malessere, tensione ed ansietà che impediscono alla persona di evolvere verso la soddisfazione dei bisogni dei livelli superiori, compromettendone così l’autorealizzazione. Per fare un esempio, se una persona ha sonno perché non riesce a soddisfare il bisogno fondamentale di dormire o ha fame perché non può soddisfare il bisogno di mangiare, difficilmente sarà propensa a perseguire dei bisogni più evoluti quali quello di sicurezza, di appartenenza, di stima e di autorealizzazione. Lo stesso vale per il sesso.
L’autorealizzazione favorisce così dei comportamenti pro-sociali e un atteggiamento di apertura verso il prossimo, mentre una mancata soddisfazione dei bisogni provoca frustrazione che tende a sfociare in comportamenti di natura aggressiva. La qualità di vita di un individuo e il grado di benessere tendono a migliorare in modo direttamente proporzionale al soddisfacimento dei bisogni dei diversi livelli, fino all’autorealizzazione.
Pertanto, ritornando al quesito iniziale dell’articolo, quando sentiamo parlare di una correlazione tra repressione sessuale e aggressività possiamo asserire che non si tratta affatto di una legenda metropolitana.
E da cosa può dipendere la repressione sessuale?
Ovviamente non esiste un’unica risposta, ma possiamo ipotizzare alcune cause quali il non avere ricevuto un’educazione sessuale, un atteggiamento sessuofobico in ambito famigliare o nel contesto culturale di riferimento. Spesso le religioni veicolano dei messaggi moralistici che portano a percepire la sessualità come qualcosa di riprovevole e peccaminoso soprattutto se vissuta al di fuori dal sacro vincolo del matrimonio e non finalizzata alla mera funzione riproduttiva.
Al giorno d’oggi sentire eresie quali “la masturbazione provoca cecità” ci fa sorridere, ma pensiamo come queste false credenze siano realmente riuscite a condizionare la vita di diverse generazioni.
Ho aperto l’articolo ponendo un quesito e spero di avervi fornito delle stimolanti risposte in merito. Concludo con un altro quesito auspicando che possa rappresentare un interessante spunto di riflessione per i miei lettori.
“Al giorno d’oggi possiamo affermare che il sesso non rappresenti ancora un tabù nella nostra società”?
Ai posteri l’ardua sentenza.
Dr.ssa Chiara Frassoni
Leggi anche: “Cosa può essere considerato “normale” nella sessualità di coppia?“
La paura di parlare in pubblico è molto diffusa, più di quanto si possa immaginare.
Da alcune ricerche condotte negli Stati Uniti emerge che quella di morire sia la paura più frequente solo dopo quella di parlare in pubblico che si aggiudica, così, il primo posto.
Il timore di esporsi di fronte ad una platea sembra essere ancestrale e connaturato all’essere umano.
Proviamo per un istante a metterci nei panni dei nostri antenati: uscire dalla propria caverna in solitudine e mettersi al centro dall’attenzione significava esporsi a molteplici pericoli come, per esempio, quello di essere attaccati da qualche predatore.
Allo stato di natura il mimetismo è un fenomeno che caratterizza diverse specie animali e vegetali e ha la funzione di tutelarne la sopravvivenza rendendosi meno visibili ai predatori.
Quando ci si espone avviene proprio l’esatto contrario: si diventa più vulnerabili a fronte di possibili attacchi esterni.
Nonostante centinaia di migliaia di anni di evoluzione della nostra specie, conserviamo un istinto che porta ad attivare delle risposte automatiche di fuga o di attacco che potrebbe volerci fare abbandonare il più in fretta possibile il palcoscenico. Ma al giorno d’oggi siamo perfettamente consapevoli del fatto che un orso inferocito ed affamato non ci attaccherà nel bel mezzo della nostra esposizione; al tempo stesso sappiamo che il pubblico si aspetta un oratore padroneggiante della situazione e sicuro di sé.
Tale conflitto tra biologia (istinti) e le norme di comportamento attese (apprendimenti culturali) rappresenta una delle ragioni per cui quella di parlare in pubblico è l’attività considerata più stressante dal maggiore numero di individui.
Come abbiamo visto, esclusi i rischi di essere attaccati da predatori, si possono attivare tutta una serie di considerazioni negative nella mente dell’oratore che diventa il proprio peggiore nemico.
L’amigdala, struttura che fa parte del nostro cervello e riveste il ruolo di mediatore centrale delle nostre emozioni, attribuisce un significato emotivo sia alle informazioni provenienti dal mondo esterno (per esempio l’attacco di un leone), ma anche dall’interno (i nostri pensieri e ricordi). Nell’evocare le emozioni non viene fatta una distinzione tra stimolazione reale ed immaginata e le risposte fisiologiche associate possono tradursi nell’aumento del battito cardiaco, sudorazione, tensione muscolare, respiro affannoso o sensazione di fame d’aria, senso di confusione e stordimento, disturbi digestivi.
Così le risposte di attacco e di fuga possono essere sollecitate da uno stimolo esterno (attacco di un predatore), ma anche da valutazioni soggettive più sofisticate che possono riguardare la propria performance e il giudizio altrui come quelle che riporto in seguito con finalità esemplificativa:
Come non farsi sopraffare dalla paura e gestire la situazione nel modo migliore possibile?
La buona notizia è che, volta individuato il problema, è possibile orientarsi sulle diverse soluzioni.
Innanzitutto è utile riconoscere che la paura è una nostra alleata e non una nemica da dover sconfiggere a tutti i costi; il livello di attivazione che accompagna questa emozione permette, infatti, di focalizzarsi sul compito e incanalare la propria energia in un senso costruttivo. Un oratore troppo rilassato, a differenza di quanto si possa immaginare, non darebbe il meglio di sé.
Investire del tempo per prepararsi adeguatamente sulla tematica che si andrà ad esporre e stabilire una scaletta da seguire durante la presentazione. La consapevolezza di essere esperti di un determinato argomento infonde un senso di sicurezza.
Riconoscere le proprie convinzioni disfunzionali (per esempio, “se mi mostro teso sarò considerato debole” oppure “se commetto un errore sono un incapace”) e metterle in discussione.
Riconoscere e prendere le distanze da tutti quei comportamenti protettivi che mantengono e alimentano il problema come, ad esempio, parlare velocemente e saltare parti del discorso per finire prima oppure non guardare negli occhi gli spettatori.
Infine è molto utile ripetere il discorso più volte di fronte ad uno specchio oppure con una cerchia ristretta di conoscenti, lavorando sul tono della voce e sulla postura corporea.
Consideriamo che se assumiamo un atteggiamento sottomesso (spalle ricurve, tono di voce basso e monocorde) finiremo per convincerci di non essere in grado di gestire la situazione; modificare certi atteggiamenti automatici permette di modificare anche le percezioni che si hanno su di sé.
Un supporto psicoterapeutico favorisce una presa di consapevolezza di tutte quelle credenze e di quei comportamenti disfunzionali che mantengono e alimentano il problema.
Dr.ssa Chiara Frassoni
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Nel presente articolo cercheremo di mettere a fuoco le differenze tra due atteggiamenti che spesso, erroneamente, possono essere confusi: l’egoismo e l’amor proprio.
L’egoismo viene definito come l’atteggiamento di chi si preoccupa soltanto del proprio bene e del proprio interesse, senza nessuna cura dei problemi, delle esigenze e dei diritti altrui (Hoepli 2018).
Per amor proprio invece possiamo intendere tutti quei comportamenti rivolti ad una sana cura e rispetto di sé; si tratta di un costrutto che si correla a quello di autostima.
Queste prime definizioni ci permettono di comprendere come alla base di tali atteggiamenti vi siano delle intenzioni completamente differenti.
Nella mia pratica clinica, per fare un esempio, incontro piuttosto frequentemente delle persone che faticano a riconoscersi il diritto di dire dei no poiché temono di essere considerate egoiste.
Proviamo a immaginare la seguente situazione: chiediamo ad un amico se sabato prossimo potrà accompagnarci all’aeroporto; costui ci risponde che per quella data ha preso un impegno da tempo e pertanto non sarà disponibile. Vi sentireste di giudicare negativamente la risposta dell’amico oppure sareste in grado di comprendere le sue ragioni? Se si tratta di un rapporto sano, credo che la maggiore parte di voi riconoscerebbe tranquillamente il diritto dell’amico di non rinunciare al suo programma per soddisfare la nostra richiesta.
Alcuni soggetti provano un forte disagio quando temono che potrebbero contravvenire a delle aspettative esterne (il più delle volte si tratta di una credenza disfunzionale che non trova riscontro nella realtà) e questo li porta a non ascoltare i propri bisogni. Nel lungo periodo questo atteggiamento causa un malessere sempre più profondo che può favorire la comparsa di patologie psico-somatiche.
Ora è utile fare un’ulteriore considerazione: quando perdiamo di vista noi stessi, i nostri bisogni, i nostri desideri e di conseguenza il nostro benessere, come possiamo pensare di esserci per gli altri?
In realtà l’amore proprio è quell’atteggiamento che, al contrario dell’egoismo, favorisce delle relazioni sane, equilibrate ed arricchenti. Se sto bene con me stesso posso fare stare bene anche gli altri.
Dr.ssa Chiara Frassoni
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Ti è mai capitato di agognare tanto una vacanza come se si trattasse di un’oasi nel deserto, per poi sperimentare un senso di delusione una volta raggiunta la meta tanto ambita?
In caso affermativo ti suggerisco la lettura di questo articolo in cui approfondisco alcune delle ragioni che favoriscono tali vissuti.
Innanzitutto ti invito a fare un breve esperimento: prendi un foglio di carta e scrivi le prime cinque parole, che ti vengono in mente, che associ all’idea di vacanza. (Non procedere nella lettura dell’articolo fino a che non le avrai individuate).
Molto probabilmente avrai scelto delle parole in linea ad un concetto di vacanza idealizzata.
Ti invito ora a fare un’altra riflessione. Cerca di ricordare uno spot che promuova un viaggio, una crociera o una vacanza e rispondi alle seguenti domande:
Come avrai capito, le immagini che ci vengono propinate contribuiscono, in modo più o meno consapevole, ad alimentare una concezione idealizzata di vacanza.
Il rischio è che passi la credenza che in vacanza si “debba” esibire un fisico statuario (quanto i media ci torturano con la “prova costume”?) indossando abiti da grido, gioendo come non mai, vivendo le più disparate esperienze adrenaliniche, ma allo stesso tempo riposandosi, il tutto ovviamente in luoghi da favola caratterizzati da climi miti.
È inutile dire che più alte sono le aspettative più facilmente saranno disilluse.
Dei tratti perfezionistici possono portarti a pianificare tutto al meglio e senza trascurare il minimo dettaglio. In tal caso qualsiasi imprevisto sarà fonte di stress, rabbia e frustrazione alimentati da alcune distorsioni cognitive come per esempio la svalutazione del positivo, il pensiero dicotomico oppure il pensiero catastrofico.
Un ulteriore ostacolo è rappresentato dal porre nelle vacanze delle aspettative miracolistiche illudendosi che possano azzerare la stanchezza e le tensioni accumulati in un anno di intenso di lavoro, di impegni e di ritmi frenetici. Una tendenza all’ipercriticismo, infatti, può portarti a credere che si debba fare sempre il possibile per soddisfare gli standard interiorizzati di comportamento molto elevati con l’esito di sentirsi costantemente sotto pressione faticando a rallentare il ritmo.
Starai intuendo che per potere apprezzare al meglio le vacanze è utile non arrivarci “scoppiati”.
Ciascuno ha delle specifiche esigenze e non tutti i climi sono adatti a noi. Mi capita sovente di sentire delle persone lamentarsi del caldo e soffrire per esso; le stesse scelgono come meta per il proprio soggiorno località marittime nei mesi più caldi motivate dalla ragione che “così fanno tutti”.
Ascoltare te stesso e riconoscere i tuoi bisogni ti permetterà di scegliere il luogo e il periodo più consono alle tue specifiche necessità.
Dr.ssa Chiara Frassoni
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La depressione é un disturbo dell’umore e rappresenta una delle principali cause di cattive condizioni di salute e di disabilità nel mondo.
Qualsiasi individuo, sollecitato da un evento negativo che comporti una perdita oppure un cambiamento di vita significativo, tenderà a sperimentare un vissuto di tristezza e malinconia; queste sensazioni tendono a diminuire gradualmente e portano verso l’accettazione della nuova condizione e a un disinvestimento emotivo.
Il disturbo depressivo, se non trattato, si insinua giorno dopo giorno e interferisce con il normale svolgimento delle attività quotidiane causando un marcato dolore sia alla persona colpita sia a chi vive a stretto contatto con lui.
Il soggetto che soffre di depressione si sente paralizzato, avverte la sensazione di non avere le forze fisiche, emotive e mentali per affrontare talvolta anche le più piccole mansioni quotidiane. Può inoltre causare perdita di energia e di appetito, cambiamenti del ritmo sonno-veglia e si accompagna spesso ad ansia, irritabilità, minore concentrazione, difficoltà nel prendere le decisioni, senso di colpa e pensieri autolesionistici.
I pensieri che accomunano i soggetti che soffrono di depressione sono spesso caratterizzati dalla credenza di essere deboli di carattere e di meritarsi questa condizione come se essa rappresentasse una sorta di punizione inflitta per delle colpe personali.
La depressione non ha nulla a che vedere con tutto ciò: si tratta infatti di un disturbo psicologico, molto frequente, che causa un forte livello di sofferenza e disabilità nella popolazione.
È un problema di cui non ci si deve vergognare e che non dipende minimamente dalla forza di volontà.
Riconoscere i sintomi della depressione rappresenta il primo passo per rivolgersi ad un professionista e iniziare un trattamento indicato.
Le linee guida dell’APA (American Psychiatric Association), stilate sulla base di rigorose revisioni della letteratura scientifica, indicano che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha la stessa efficacia degli psicofarmaci nel trattamento della maggior parte delle forme di depressione ed inoltre è più efficace di questi ultimi nella prevenzione delle ricadute: la psicoterapia continua ad essere efficace anche a seguito della sua conclusione, al contrario della sospensione degli psicofarmaci.
In alcune situazioni si considera opportuno associare alla psicoterapia una terapia farmacologica.
Un fondamentale obiettivo terapeutico consiste nel portare il paziente ad acquisire una maggiore consapevolezza circa l’eziopatogenesi dei propri disturbi, riconoscendo i fattori predisponenti, i fattori precipitanti e i fattori che concorrono al mantenimento delle problematiche.
La psicoterapia è così finalizzata a incrementare le capacità di riflessione e potenziare le risorse del soggetto che apprende gradualmente delle strategie di auto-aiuto che permettono di mantenere stabili i risultati ottenuti.
Dr.ssa Chiara Frassoni
Nel 120 d. C. Epitteto asserì che “più che dagli eventi l’uomo è turbato dalla sua opinione degli eventi”. Il filosofo sosteneva che “non è terribile la morte, ma l’etichetta di terribilità che le diamo. Problemi, turbamenti, angosce e stati d’animo sono nei nostri pensieri”.
L’affermazione sopra riportata è ancora attualissima considerando che i problemi emotivi che ci affliggono dipendono in gran parte dalle nostre strutture e costruzioni cognitive. La ricerca in psicologia ha dimostrato, infatti, che l’analisi e la modificazione dei pensieri e comportamenti disfunzionali sono tra i metodi più efficaci per migliorare la qualità di vita.
La mente umana non è un ricettacolo passivo di sensazioni e influenze ambientali e biologiche, piuttosto gli individui sono attivamente coinvolti nella costruzione della loro realtà. (Clark, 1995).
Il pensare e l’immaginare sono attività costanti e i pensieri automatici che si formano in continuazione nella nostra mente ci permettono di attribuire sempre un significato a ciò che ci succede.
Per rendere più chiaro tale costrutto immaginiamo la seguente situazione esemplificativa: Michele è uno studente universitario iscritto alla facoltà di medicina e due settimane fa non ha superato l’esame di anatomia. Michele si sente tremendamente triste, scoraggiato e privo di energie. Continua a ripetersi di avere perso un sacco di tempo inutilmente, di essere un fallito e si considera inadeguato confrontandosi con i suoi compagni di corso che gli sembrano tutti più brillanti di lui; si sente bloccato non trovando la giusta motivazione per sostenere nuovamente l’esame perché teme di potere fallire una seconda volta. Arriva a pensare che non sarà mai un bravo medico.
Anche Andrea non ha superato lo stesso esame, ma la sua reazione è piuttosto differente rispetto a quella del compagno di corso. A seguito di uno sconforto iniziale (certo, a nessuno fa piacere non superare una prova importante) Andrea pensa che gli sforzi fatti per la preparazione dell’esame non siano vani e crede che continuare a impegnarsi nello studio gli permetterà di ottenere un esito positivo alla sessione successiva.
Tale esempio ci permette di capire come la stessa situazione possa evocare dei vissuti soggettivi molto differenti.
Questo, ovviamente non vuol dire che i problemi emotivi esistono solo nelle menti delle persone, ma che l’impatto di circostanze avverse tende ad essere aggravato da pensieri e convinzioni poco utili all’individuo poiché interferiscono con la capacità di affrontare le difficoltà nel modo più costruttivo possibile.
Michele, senza esserne consapevole, sta alimentando diverse distorsioni cognitive, quali la catastrofizzazione, la doverizzazione e il pensiero dicotoimco. Tali distorsioni non rispecchiano la realtà dei fatti (non superare un esame non è di certo indice dello scarso valore di una persona) ma hanno un impatto più che tangibile sullo stato d’animo dello studente.
Per comprendere la reazione emotiva di una persona a fronte di un particolare evento è necessario scoprire il significato che questa associa agli avvenimenti della propria vita, ovvero la costruzione soggettiva della realtà. I contenuti del nostro pensiero influenzano non solo il nostro comportamento, ma anche il nostro stato d’animo, le nostre reazioni fisiche e il nostro ambiente sociale.
Quando le reazioni emotive sono particolarmente intense, il più delle volte, il pensiero predispone a distorcere, sminuire o ignorare alcune informazioni; capita a tutti di pensare in questo modo, ma è utile riuscire a riconoscere e mettere in discussione tutte quelle distorsioni cognitive per alimentare invece un pensiero più equilibrato ed un umore più stabile; infatti più i nostri stati d’animo sono intensi e più è probabile che i nostri pensieri siano estremi.
Uno dei punti centrali della psicoterapia cognitiva è quello di fornire al cliente gli strumenti per riconoscere le proprie distorsioni cognitive e sviluppare punti di vista alternativi in modo da fronteggiare nel modo più costruttivo possibile le situazioni problematiche.
Dr.ssa Chiara Frassoni
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La psicoterapia a orientamento cognitivo comportamentale ha dimostrato una particolare efficacia nel trattamento del disturbo da attacchi di panico. Il presente articolo descrive la sintomatologia e delinea i principali interventi per superarla.
Il disturbo di panico fa parte dei disturbi d’ansia ed è caratterizzato da frequenti attacchi di panico, spesso improvvisi e inaspettati.
Un attacco di panico si manifesta con la comparsa di paura o disagio intensi e raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si verificano alcuni o più dei seguenti sintomi:
Chi ha vissuto un attacco di panico lo descrive come un’esperienza terribile in quanto caratterizzata da forti risposte neurovegetative e sentimenti di apprensione, paura e terrore; tali sentimenti sono accompagnati dal timore che possa accadere qualcosa di molto grave, come, per esempio, perdere il controllo, impazzire, avere un infarto oppure soffocare.
Il primo attacco di panico, la maggior parte delle volte, è seguito dalla preoccupazione che possano presentarsene degli altri e così si attiva un circolo vizioso: un singolo attacco di panico tende, così, ad innescare un disturbo di panico che si caratterizza per la “paura della paura”.
Alcuni individui tendono a mettere in atto delle condotte di evitamento verso tutte quelle situazioni o attività considerate ansiogene e ciò porta ad un notevole restringimento del proprio raggio vitale. Tale condizione, protratta nel tempo, può indurre una depressione secondaria. Il soggetto si sente sempre più inadeguato, incompetente e dipendente verso gli altri.
Gli attacchi di panico, solitamente, si manifestano in periodi di vita particolarmente stressanti e determinate situazioni fungono da fattori precipitanti.
Un attacco di panico è accompagnato non solo da risposte neurovegetative, ma anche da sintomi cognitivi, come pensieri catastrofici, che aumentano l’intensità dell’ansia.
La psicoterapia a orientamento cognitivo comportamentale ha dimostrato una particolare efficacia nella cura degli attacchi di panico e del disturbo di panico.
Il trattamento prevede i seguenti punti:
Le sedute, in una fase iniziale del percorso, vengono fissate solitamente con una cadenza settimanale per poi essere gradualmente ridotte a seguito dal raggiungimento e consolidamento di obiettivi concordati tra utente e terapeuta. Il soggetto, infatti, svolge un ruolo attivo nella risoluzione del proprio problema e con l’aiuto del terapeuta apprende delle modalità di pensiero e di comportamento più funzionali, spezzando così i circoli viziosi che concorrono al mantenimento della sintomatologia.
Dr.ssa Chiara Frassoni
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“L’abilità di essere nel momento presente è una componente fondamentale del benessere mentale”.
Abraham Maslow
Per mindfulness si intende uno stato mentale contraddistinto da un’attenzione consapevole al momento presente e da un atteggiamento non giudicante.
Il training di mindfulness, costituito da una serie di pratiche, ha dimostrato un’efficacia empirica nell’autoregolazione delle emozioni problematiche; pazienti ansiosi o depressi apprendono a regolare sintomi ed emozioni.
Il tentativo di evitare pensieri e stati d’animo sgraditi può portarci, paradossalmente, a sperimentarli in modo ancora più intenso. Se ci sforziamo di allontanare pensieri ed emozioni disturbanti otterremo l’effetto contrario: daremo loro sempre più potere ed esse riemergeranno sempre di più.
L’accettazione esperienziale è un’alternativa più funzionale per considerare i propri vissuti emotivi: la disponibilità a stare in contatto con le esperienze dolorose facilita una convivenza tra i propri vissuti più intensi e una vita ricca di significato e degna di essere di vissuta.
La mindfulness favorisce l’accettazione delle emozioni attraverso una modalità non giudicante e non colpevolizzante e attraverso la comprensione di come i diversi stati emotivi possono essere tollerati e vissuti.
L’esperienza della mindfulness favorisce un’accresciuta consapevolezza di noi stessi e di ciò che ci circonda, una chiarezza nella percezione e uno spirito di accettazione volontaria del momento presente così com’è (benessere mentale).
Diversi studi hanno dimostrato i benefici del training di mindfulness in diversi ambiti tra cui i disturbi d’ansia, il trattamento delle ricadute nel disturbo depressivo, il dolore cronico, la gestione della malattia organica e altri problemi psicologici (Baer, 2003).
Dr.ssa Chiara Frassoni
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Nei colloqui di consulenza, con una certa frequenza, alcuni utenti chiedono quali comportamenti possono essere considerati normali nella sessualità di coppia.
Prima di tutto è fondamentale interrogarsi sul concetto di normalità. Quali criteri stabiliscono se un comportamento è normale oppure se devia dalla norma?
Il contesto storico e socio-culturale a cui si fa riferimento ci fornisce delle risposte in questa direzione. Nelle società occidentali, per fare un esempio, il matrimonio monogamico è considerato un’istituzione fondamentale, mentre i matrimoni plurimi vengono sanzionati. La situazione è differente in più di cinquanta paesi nel mondo, presenti soprattutto in Africa e in Asia, dove la poligamia è, invece, consentita.
Anche l’età del consenso (in diritto si intende l’età in cui una persona è considerata capace di dare un consenso informato a rapporti e ad atti sessuali) varia da stato a stato.
Ogni società adotta dei codici normativi che orientano il comportamento delle persone. Dall’altro lato è anche vero che i cambiamenti culturali di una società portano a rivedere alcune leggi. Pensiamo per esempio alle disposizioni sul delitto d’onore e sul matrimonio riparatore che in Italia sono state abrogate solamente nel 1981!
L’articolo 3 della nostra costituzione sancisce la pari dignità sociale e l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è un diritto soggettivo assoluto ed è tutelato dalla costituzione italiana.
Una normalità di tipo statistico ci dice, invece, quali sono i comportamenti maggiormente diffusi nella popolazione ma, dall’altro lato, dice poco sul vissuto di ogni singolo individuo. In una società, infatti, i comportamenti che rientrano al centro della curva di Gauss tendono ad essere considerati “normali”.
Ricollegandoci al concetto di normalità statistica, le ricerche condotte dal biologo e sessuologo statunitense Alfred Kinsey hanno rappresentato una vera rivoluzione tra gli anni ‘40 e ‘50 del Novecento, rivelando dei dati che l’opinione pubblica non si sarebbe aspettata. Lo studioso si è posto l’obiettivo di indagare i comportamenti sessuali della popolazione attraverso più di diciottomila interviste. Dai Rapporti di Kinsey (Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948; Il comportamento sessuale della donna, 1953) si evince come il sesso non fosse considerato nella sua mera funzione riproduttiva, ma come fonte di piacere, gratificazione e di crescita personale; gli americani intervistati parlavano di orgasmo, masturbazione, fellatio, cunnilingus e di relazioni extra coniugali. Il rigore scientifico degli studi di Kinsey permise di sradicare certi tabù. La masturbazione e il piacere sessuale non erano più considerate delle prerogative maschili e veniva messa in evidenza la presenza di differenti orientamenti sessuali.
I Rapporti di Kinsey rilevarono, inoltre, che la frequenza media dei coiti dichiarati dalle donne all’interno di una relazione coniugale era pari a 2.8 volte a settimana prima dei venti anni, 2.2 volte a settimana prima dei trenta anni e 1.0 volta a settimana prima dei cinquanta anni.
Il concetto di normalità può essere letto anche sotto una chiave moralistica. Tutte le religioni, infatti, propinano dei modelli di comportamento da seguire ai loro fedeli e, ad esempio, per la religione cattolica la sessualità deve essere vissuta all’interno di una famiglia, sancita da un matrimonio tra un uomo e una donna, con lo scopo di procreare; i metodi contraccettivi artificiali non sono accettati poiché ostacolano tale fine.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce così la sessualità: “Un aspetto centrale dell’essere umano nel corso della vita che comprende sesso, identità e ruoli di genere, orientamento sessuale, erotismo, piacere, intimità e riproduzione. La sessualità è vissuta ed espressa in pensieri, fantasie, desideri, credenze, atteggiamenti, valori, comportamenti, pratiche, ruoli e relazioni. Anche se la sessualità può includere tutte queste dimensioni, non tutte sono sempre esperite o espresse. La sessualità è influenzata dall’interazione dei fattori biologici, psicologici, sociali, economici, politici, culturali, giuridici, storici, religiosi e spirituali”.
Per salute sessuale, l’OMS intende “Uno stato di benessere fisico, emotivo, mentale e sociale in relazione alla sessualità; non è solo assenza di malattia, disfunzioni o infermità. La salute sessuale richiede un approccio positivo e rispettoso alla sessualità e alle relazioni sessuali, così come la possibilità di avere esperienze sessuali piacevoli e sicure, libere da coercizione, discriminazione e violenza Per raggiungere e mantenere la salute sessuale, i diritti sessuali di ogni essere umano devono essere rispettati, protetti e soddisfatti”.
I seguenti diritti sessuali, che fanno parte dei diritti umani, sono riconosciuti da leggi nazionali, da documenti e dichiarazioni di consenso a livello internazionale:
L’esercizio responsabile dei diritti sessuali richiede che tutte le persone rispettino i diritti degli altri.
I diritti sessuali, le definizioni di sessualità e di salute sessuale proposte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità rappresentino delle ottime linee guida per rispondere al quesito iniziale, ovvero stabilire che cosa possa essere considerato normale nella sfera della sessualità, tenendo presente che il concetto di normalità è costantemente soggetto a revisioni e modifiche.
Concludendo, possiamo considerare normale e naturale tutto ciò che riguarda l’espressione della propria sessualità nel modo più libero e personale, con il consenso del partner, nell’assoluto rispetto di sé e dell’altro; tutto ciò che riguarda la manifestazione di quel sentimento squisitamente umano che si chiama amore e nulla a che vedere con le discriminazioni, le coercizioni, lo svilimento e le sopraffazioni.
Dr.ssa Chiara Frassoni
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La fine di una relazione sentimentale, per la stragrande maggioranza degli individui, rappresenta una fase particolarmente dolorosa e critica della propria esistenza a cui spesso si associano anche diversi sintomi fisici come insonnia, cambiamenti nell’appetito, disturbi gastrointestinali, tensione muscolare e riduzione di energie.
Si tratta di un vissuto che per molti aspetti può essere sovrapponibile a un lutto considerando che quest’ultimo viene definito come uno stato psicologico conseguente alla perdita di una persona significativa che ha fatto parte integrante dell’esistenza e che prevede diverse fasi nella sua elaborazione.
Secondo la psichiatra Kübler Ross le persone, a seguito di ogni grande perdita (fine di una relazione), attraversano cinque fasi:
I vissuti emotivi descritti da Kübler Ross nelle diverse fasi tendono ad alternarsi, a sovrapporsi e a ripresentarsi ciclicamente e con diversa intensità, senza seguire un ordine lineare. (Si tratta di fasi e non di stadi).
Il processo di elaborazione è necessario affinché l’individuo possa riorganizzarsi all’interno di un nuovo sistema di equilibrio e investire in una nuova progettualità.
Il senso di vuoto, la tristezza e il dolore che si vorrebbero evitare a tutti i costi (non dimentichiamo che siamo immersi in una società il cui valore dominante del “riprenditi in fretta e vai avanti” che mal tollera il senso di vuoto e la frustrazione) non sono soltanto delle normali reazioni fisiologiche a seguito di una perdita, ma vissuti funzionali per la sua elaborazione. Così il turbinio di intense emozioni che passa dalla rabbia alla tristezza per arrivare alla paura fino alla colpa è necessario perché permette di guardare la realtà per quello che è, per poi riattivarsi verso una direzione più costruttiva rispetto a quelle precedente.
Spesso si tende a cadere nella trappola di alcune modalità che portano ad un arresto o ad una retrocessione nel processo di elaborazione: rimanere in contatto con il/la proprio ex o cercare delle scuse per farlo, controllare ciò che fa attraverso i social network, frequentare gli stessi posti o le stesse amicizie sono comportamenti da non mettere in atto.
Accettare che si sta attraversando un periodo difficile e prendersi tutto il tempo necessario per superarlo, riconoscere i differenti stati emotivi e dare loro voce senza evitarli o contrastarli a tutti i costi rappresenta il migliore punto di partenza.
Considerare che i momenti più dolorosi della propria esistenza rappresentano un’occasione per guardarsi dentro, per entrare in contatto con le parti più profonde del proprio sé.
Numerose ricerche psicologiche (Richard G. Tedeschi e Lawrence G. Calhoun, 2004) dimostrano come l’elaborazione del dolore a fronte di eventi critici porti a mettere in discussione le credenze e le convinzioni che fino a quel momento avevano rappresentato una bussola esistenziale, per esplorarne di nuove e più autentiche.
Gli eventi negativi, infatti, spingono gli individui a porsi dei quesiti che probabilmente avrebbero ignorato, mettendoli nella condizione di rivedere ciò che era dato per scontato nella vita e a rivalutare le proprie priorità e la propria scala valoriale.
Qualsiasi soggetto può scegliere di colmare il senso di vuoto che lo assale, incanalando le proprie energie verso l’individuazione di nuove strategie creative e costruttive.
La fine di una relazione non deve essere considerata come l’ultima pagina di un libro. Si tratta della chiusura di un capitolo che per certi aspetti ha arricchito la storia narrata rendendola unica. E ciascuno è libero di decidere come iniziare a scrivere il capitolo successivo, partendo da una consapevolezza del contenuto delle pagine precedenti.
Lo psicoterapeuta può aiutare la persona che si sente bloccata in una delle fasi sopra descritte a riconoscere i propri stati emotivi, i pensieri e le reazioni comportamentali e ad affrontare il disagio affiancandola nella costruzione di un nuovo equilibrio.
Dr.ssa Chiara Frassoni
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