Parlare in pubblico: che paura!
Parlare in pubblico: che paura!
La paura di parlare in pubblico è molto diffusa, più di quanto si possa immaginare.
Da alcune ricerche condotte negli Stati Uniti emerge che quella di morire sia la paura più frequente solo dopo quella di parlare in pubblico che si aggiudica, così, il primo posto.
Il timore di esporsi di fronte ad una platea sembra essere ancestrale e connaturato all’essere umano.
Proviamo per un istante a metterci nei panni dei nostri antenati: uscire dalla propria caverna in solitudine e mettersi al centro dall’attenzione significava esporsi a molteplici pericoli come, per esempio, quello di essere attaccati da qualche predatore.
Allo stato di natura il mimetismo è un fenomeno che caratterizza diverse specie animali e vegetali e ha la funzione di tutelarne la sopravvivenza rendendosi meno visibili ai predatori.
Quando ci si espone avviene proprio l’esatto contrario: si diventa più vulnerabili a fronte di possibili attacchi esterni.
Nonostante centinaia di migliaia di anni di evoluzione della nostra specie, conserviamo un istinto che porta ad attivare delle risposte automatiche di fuga o di attacco che potrebbe volerci fare abbandonare il più in fretta possibile il palcoscenico. Ma al giorno d’oggi siamo perfettamente consapevoli del fatto che un orso inferocito ed affamato non ci attaccherà nel bel mezzo della nostra esposizione; al tempo stesso sappiamo che il pubblico si aspetta un oratore padroneggiante della situazione e sicuro di sé.
Tale conflitto tra biologia (istinti) e le norme di comportamento attese (apprendimenti culturali) rappresenta una delle ragioni per cui quella di parlare in pubblico è l’attività considerata più stressante dal maggiore numero di individui.
Come abbiamo visto, esclusi i rischi di essere attaccati da predatori, si possono attivare tutta una serie di considerazioni negative nella mente dell’oratore che diventa il proprio peggiore nemico.
L’amigdala, struttura che fa parte del nostro cervello e riveste il ruolo di mediatore centrale delle nostre emozioni, attribuisce un significato emotivo sia alle informazioni provenienti dal mondo esterno (per esempio l’attacco di un leone), ma anche dall’interno (i nostri pensieri e ricordi). Nell’evocare le emozioni non viene fatta una distinzione tra stimolazione reale ed immaginata e le risposte fisiologiche associate possono tradursi nell’aumento del battito cardiaco, sudorazione, tensione muscolare, respiro affannoso o sensazione di fame d’aria, senso di confusione e stordimento, disturbi digestivi.
Così le risposte di attacco e di fuga possono essere sollecitate da uno stimolo esterno (attacco di un predatore), ma anche da valutazioni soggettive più sofisticate che possono riguardare la propria performance e il giudizio altrui come quelle che riporto in seguito con finalità esemplificativa:
- “E se sbaglio?”
- “Se si accorgono che sono teso?”
- “Se faccio una brutta figura?”
- “Se dimentico una parte del discorso?”
- “Se il pubblico si dovesse annoiare?”
- “Saprò rispondere alle possibili domande?”
Come non farsi sopraffare dalla paura e gestire la situazione nel modo migliore possibile?
La buona notizia è che, volta individuato il problema, è possibile orientarsi sulle diverse soluzioni.
Innanzitutto è utile riconoscere che la paura è una nostra alleata e non una nemica da dover sconfiggere a tutti i costi; il livello di attivazione che accompagna questa emozione permette, infatti, di focalizzarsi sul compito e incanalare la propria energia in un senso costruttivo. Un oratore troppo rilassato, a differenza di quanto si possa immaginare, non darebbe il meglio di sé.
Investire del tempo per prepararsi adeguatamente sulla tematica che si andrà ad esporre e stabilire una scaletta da seguire durante la presentazione. La consapevolezza di essere esperti di un determinato argomento infonde un senso di sicurezza.
Riconoscere le proprie convinzioni disfunzionali (per esempio, “se mi mostro teso sarò considerato debole” oppure “se commetto un errore sono un incapace”) e metterle in discussione.
Riconoscere e prendere le distanze da tutti quei comportamenti protettivi che mantengono e alimentano il problema come, ad esempio, parlare velocemente e saltare parti del discorso per finire prima oppure non guardare negli occhi gli spettatori.
Infine è molto utile ripetere il discorso più volte di fronte ad uno specchio oppure con una cerchia ristretta di conoscenti, lavorando sul tono della voce e sulla postura corporea.
Consideriamo che se assumiamo un atteggiamento sottomesso (spalle ricurve, tono di voce basso e monocorde) finiremo per convincerci di non essere in grado di gestire la situazione; modificare certi atteggiamenti automatici permette di modificare anche le percezioni che si hanno su di sé.
Un supporto psicoterapeutico favorisce una presa di consapevolezza di tutte quelle credenze e di quei comportamenti disfunzionali che mantengono e alimentano il problema.
Dr.ssa Chiara Frassoni
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